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Abroad: rock dal mondo

Con il frac di Modugno. Il rock contaminato dei Radical Kitsch

Recensione dell'album "Limo" dei Radical Kitsch, con etichetta Fullheads.

di Luisa Ferrara

 

Il maestro Henri Cartier Bresson, parlando della fotografia, diceva che “fotografare è mettere sullo stesso piano occhi, mente e cuore”. Quando emozione e ragione viaggiano sulla stessa linea d’onda, si può dire di star ascoltando un album quantomeno interessante. Con Limo dei Radical Kitsch la frittata è fatta: son mescolati per bene testi e musiche originali, come originali sono certe contaminazioni, contrasti e mix di generi che caratterizzano questo disco. Dieci brani, uno diverso dall’altro, in cui convivono trombe jazz con chitarre elettriche, la voce di Conforti, piano e archi. Si cerca di raccontare “l’inferno” attraverso un concept album, come accade magistralmente in “Diario di un ignavo” o in “Una modesta signora di provincia”, quest’ultima storia di un lussuriosa Madame Bovary, “donna nuda che non ama più” (che musicalmente ricorda un po’, tra l’altro, lo stile dei Perturbazione).

 

Ah se si potesse guidare a lungo in strade di campagna vuote, in un pomeriggio di primavera. Lontani dalla città e dal traffico, tra curve e alberi. La musica di questo Limo dantesco, se si potesse canticchiarla, e poi farsi trascinare dalle storie e cercare di interpretarle amodoproprio.

Se si potesse ballicchiare sotto la doccia cantando un po’ a caso. Per un attimo viene alla mente Bennato (Edoardo), saltellando su “Hopplà”, o lasciandosi prendere dal ritornello di “Se tu mi vuoi”.

E poi ci sono le musiche del Sud, quelle un po’ reggae-ska e un po’ popolari, quando si ascolta la storia di Mario, metalmeccanico suicidatosi col metano (“Mario col metano”) che sogna di rinascere borghese, e nel pezzo finale, l’ironico quanto realistico “Vespe e zanzare”.

Lontanamente si percepiscono i Baustelle in “Teoria della razza”, ballata un po’ nonsense, e poi Napoli, amata Napoli, con la sua storia eterna, sublime, violenta in “Spartacus (Shot gun)”, realizzata con la collaborazione del variopinto polistrumentista Maurizio Capone.

Entra in testa al primo ascolto “Diario di un ignavo”, che suona così: “Questo è uno strano fenomeno/ o più semplicemente alterazione di realtà”, e che sembra voglia raccontare il blocco emozionale dovuto a un iper-eccesso di maledetta televisione “azione a catena/ne vale la pena/reazione a catena/si balla in balera”.

 

Infine come non citare il pezzo incipit del disco, la più cupa “Demodè”, primo singolo estratto dall’album, da cui è stato anche tratto il video. Archi e pianoforte si fondono in malinconiche melodie, che il video con atmosfere griglio blu sfocate non fa altro che esaltare. La chitarra rock irrompe nel pezzo, non facendo altro che sottolineare, nel finale, l’alienazione più profonda dell’uomo quando si sente estraneo rispetto al mondo esterno e forse, anche un po’, per se stesso. “La mia realtà si piega piano su di me/già sento che/son solo triste e demodé.”

Sarà il mondo perbenista cantato in “Ma quanta ipocrisia” a dar la sensazione che nulla cambi mai davvero? Un album che incuriosisce, per le tematiche insolite, l’ironia, la voglia di giocare volando tra generi e stili, con addosso il frac di Modugno.

per info

 

www.radicalkitsch.com

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Il maestro Henri Cartier Bresson, parlando della fotografia, diceva che “fotografare è mettere sullo stesso piano occhi, mente e cuore”. Quando emozione e ragione viaggiano sulla stessa linea d’onda, si può dire di star ascoltando un album quantomeno interessante. Con Limo dei Radical Kitsch la frittata è fatta: son mescolati per bene testi e musiche originali, come originali sono certe contaminazioni, contrasti e mix di generi che caratterizzano questo disco. Dieci brani, uno diverso dall’altro, in cui convivono trombe jazz con chitarre elettriche, la voce di Conforti, piano e archi. Si cerca di raccontare “l’inferno” attraverso un concept album, come accade magistralmente in “Diario di un ignavo” o in “Una modesta signora di provincia”, quest’ultima storia di un lussuriosa Madame Bovary, “donna nuda che non ama più” (che musicalmente ricorda un po’, tra l’altro, lo stile dei Perturbazione).

 

Ah se si potesse guidare a lungo in strade di campagna vuote, in un pomeriggio di primavera. Lontani dalla città e dal traffico, tra curve e alberi. La musica di questo Limo dantesco, se si potesse canticchiarla, e poi farsi trascinare dalle storie e cercare di interpretarle amodoproprio.

Se si potesse ballicchiare sotto la doccia cantando un po’ a caso. Per un attimo viene alla mente Bennato (Edoardo), saltellando su “Hopplà”, o lasciandosi prendere dal ritornello di “Se tu mi vuoi”.

E poi ci sono le musiche del Sud, quelle un po’ reggae-ska e un po’ popolari, quando si ascolta la storia di Mario, metalmeccanico suicidatosi col metano (“Mario col metano”) che sogna di rinascere borghese, e nel pezzo finale, l’ironico quanto realistico “Vespe e zanzare”.

Lontanamente si percepiscono i Baustelle in “Teoria della razza”, ballata un po’ nonsense, e poi Napoli, amata Napoli, con la sua storia eterna, sublime, violenta in “Spartacus (Shot gun)”, realizzata con la collaborazione del variopinto polistrumentista Maurizio Capone.

Entra in testa al primo ascolto “Diario di un ignavo”, che suona così: “Questo è uno strano fenomeno/ o più semplicemente alterazione di realtà”, e che sembra voglia raccontare il blocco emozionale dovuto a un iper-eccesso di maledetta televisione “azione a catena/ne vale la pena/reazione a catena/si balla in balera”.

 

Infine come non citare il pezzo incipit del disco, la più cupa “Demodè”, primo singolo estratto dall’album, da cui è stato anc

Il maestro Henri Cartier Bresson, parlando della fotografia, diceva che “fotografare è mettere sullo stesso piano occhi, mente e cuore”. Quando emozione e ragione viaggiano sulla stessa linea d’onda, si può dire di star ascoltando un album quantomeno interessante. Con Limo dei Radical Kitsch la frittata è fatta: son mescolati per bene testi e musiche originali, come originali sono certe contaminazioni, contrasti e mix di generi che caratterizzano questo disco. Dieci brani, uno diverso dall’altro, in cui convivono trombe jazz con chitarre elettriche, la voce di Conforti, piano e archi. Si cerca di raccontare “l’inferno” attraverso un concept album, come accade magistralmente in “Diario di un ignavo” o in “Una modesta signora di provincia”, quest’ultima storia di un lussuriosa Madame Bovary, “donna nuda che non ama più” (che musicalmente ricorda un po’, tra l’altro, lo stile dei Perturbazione).

 

Ah se si potesse guidare a lungo in strade di campagna vuote, in un pomeriggio di primavera. Lontani dalla città e dal traffico, tra curve e alberi. La musica di questo Limo dantesco, se si potesse canticchiarla, e poi farsi trascinare dalle storie e cercare di interpretarle amodoproprio.

Se si potesse ballicchiare sotto la doccia cantando un po’ a caso. Per un attimo viene alla mente Bennato (Edoardo), saltellando su “Hopplà”, o lasciandosi prendere dal ritornello di “Se tu mi vuoi”.

E poi ci sono le musiche del Sud, quelle un po’ reggae-ska e un po’ popolari, quando si ascolta la storia di Mario, metalmeccanico suicidatosi col metano (“Mario col metano”) che sogna di rinascere borghese, e nel pezzo finale, l’ironico quanto realistico “Vespe e zanzare”.

Lontanamente si percepiscono i Baustelle in “Teoria della razza”, ballata un po’ nonsense, e poi Napoli, amata Napoli, con la sua storia eterna, sublime, violenta in “Spartacus (Shot gun)”, realizzata con la collaborazione del variopinto polistrumentista Maurizio Capone.

Entra in testa al primo ascolto “Diario di un ignavo”, che suona così: “Questo è uno strano fenomeno/ o più semplicemente alterazione di realtà”, e che sembra voglia raccontare il blocco emozionale dovuto a un iper-eccesso di maledetta televisione “azione a catena/ne vale la pena/reazione a catena/si balla in balera”.

 

Infine come non citare il pezzo incipit del disco, la più cupa “Demodè”, primo singolo estratto dall’album, da cui è stato anche tratto il video. Archi e pianoforte si fondono in malinconiche melodie, che il video con atmosfere griglio blu sfocate non fa altro che esaltare. La chitarra rock irrompe nel pezzo, non facendo altro che sottolineare, nel finale, l’alienazione più profonda dell’uomo quando si sente estraneo rispetto al mondo esterno e forse, anche un po’, per se stesso. “La mia realtà si piega piano su di me/già sento che/son solo triste e demodé.”

Sarà il mondo perbenista cantato in “Ma quanta ipocrisia” a dar la sensazione che nulla cambi mai davvero? Un album che incuriosisce, per le tematiche insolite, l’ironia, la voglia di giocare volando tra generi e stili, con addosso il frac di Modugno.

 

he tratto il video. Archi e pianoforte si fondono in malinconiche melodie, che il video con atmosfere griglio blu sfocate non fa altro che esaltare. La chitarra rock irrompe nel pezzo, non facendo altro che sottolineare, nel finale, l’alienazione più profonda dell’uomo quando si sente estraneo rispetto al mondo esterno e forse, anche un po’, per se stesso. “La mia realtà si piega piano su di me/già sento che/son solo triste e demodé.”

Sarà il mondo perbenista cantato in “Ma quanta ipocrisia” a dar la sensazione che nulla cambi mai davvero? Un album che incuriosisce, per le tematiche insolite, l’ironia, la voglia di giocare volando tra generi e stili, con addosso il frac di Modugno.

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