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La ballata della rabbia. Ballads al Trepiazze Festival

Bollettino rock dalla provincia

La ballata della rabbia. Francesco Di Bella e Alfonso Bruno al Tre Piazze Festival

di Angelo Cariello

foto di Valentina Gaudiosi

La bella stagione è un pullulare di festival e un indefesso prodigarsi di chi li orchestra ed organizza affinché le piazze che li ospitano non vadano deserte. Ne hanno accorpate tre di piazze, a Campagna, per tirarci su una rassegna niente male, se è vero che ad aprirla è il concerto di Francesco Di Bella. C’è una piazzetta affollata che aspetta le sue ballate. Perché la gente che bivacca, assiepata sui gradini attorno al palchetto, è qui per questo, nevvero? Se lo chiede anche lo stesso Francesco Di Bella quando, un po’ scazzato e con lo zaino ancora sulle spalle, s’aggrappa al microfono per far presente ai presenti mentalmente assenti che – se vi pare – lui sarebbe lì per cantare e che – se non è troppo disturbo – gradirebbe un minimo d’attenzione e, magari, di partecipazione. M’aspettavo tutt’altro clima. È da tempo che sentivo parlare delle incursioni della storica voce dei 24 Grana nelle sonorità dell’acustico. E non vedevo l’ora di intercettare una data nelle vicinanze. Tanto che, senza tentennare, l’ho preferito a Patti Smith, le cui celebrazioni liturgiche stasera facevano tappa a Giffoni.

Storcano pure il naso, lor signori, ma ognuno ha una storia alle spalle. E può capitare che la propria storia, nella sua genuina piccolezza, diverga dalla massificata e massificante narrazione istituzionale del rock ufficiale, quello con la erre assolutamente maiuscola, fatto di giganteschi boss e colossali sacerdotesse alla cui infinita grandezza genuflettersi e prostrarsi. La mia storia, il mio trascurabile racconto scritto in caratteri più che minuscoli, è quello di una matricola che all’università, durante un’affollata assemblea, s’imbatte per puro caso in un disco lasciato più o meno incustodito due sedie più in là. La scritta, col pennarello nero, “K album – 24 Grana” m’intricava. Retto ed onesto fino alle vette della trasparenza francescana, non potei far altro che aspettare il momento buono per far scivolare, nascostamente, quel disco nella mia borsa e il mio corpo fuori da quell’aula di logorroici rivoltosi.

“Cerco una storia che abbia un lontano finire”: c’era tanta più parte di me nel verso che apriva quell’album trafugato che in tutto il pietrificato marasma di paroloni e proclami che m’ero pazientemente sorbito in due ore e più di assemblea. Il fatto che poi, la sera stessa, al centro sociale sotto casa suonassero proprio i 24 Grana, beh, è la testimonianza che anche nelle storie più piccole ed insignificanti c’è traccia di un qualche tocco di divina grandezza. E quando Francesco Di Bella, sul tappeto melodico magistralmente tessuto dal dolce arpeggio di Alfonso Fofò Bruno, il chitarrista che lo accompagna, attacca a cantare “Quante sò 'e manere pe' nè ascì”, quel brivido che m’avvolge, a me che vesto sempe uguale, a me che per non crescere vado in giro ancora con la maglietta stinta dei Nirvana, ebbene, quel fremito, cos’altro è se non un’eco di quella piccola infinita grandezza? Peccato che, fuori dal labirinto delle mie riflessioni agiografiche, l’unica cosa che echeggia prepotentemente stasera in questa piazza è il cicaleccio della gente, che prosegue strafottente nell’irritante andazzo delle improcrastinabili chiacchiere.

Francesco Di Bella, invece, decide di fermarsi. Due tizi, un trippone e una mezza cartuccia, si sono avvicinati per dirgli qualcosa. Credevo volessero complimentarsi con lui, o tutt’al più richiedere un pezzo. “Mi hanno detto che devo fermarmi, ché diamo fastidio”, dice invece Francesco Di Bella, che scende dal palco e, col volto scuro, viene a sedersi tra di noi. Gli organizzatori, poverini, provano a convincerlo a riprendere il concerto, ma lui non ne vuole sapere, si alza e scompare tra la folla. Che disdetta! Sarà la vecchiaia dei ventinove anni che sto per compiere, sarà che nel formato chitarra e voce riesco finalmente a cogliere tutte le parole, sarà per le mie orecchie che ancora sanguinano dopo la trapassante scarica di watt del concerto di ieri sera dei Dinosaur Jr, ma le canzoni dei 24 Grana non mi erano mai piaciute così tanto. Il cane che alla prima nota mi si era accucciato tra le gambe e aveva puntato occhi ed orecchie verso il palco, ora s’agita, guaisce, gira su se stesso e prende a sbattermi la sua coda in faccia. Hai ragione, amico mio, la storiella dell’uomo animale più evoluto è una grandissima stronzata. Qualcuno batte le mani, qualcun altro fischia: Francesco Di Bella è rientrato, guadagna il palco, non una parola, non un sorriso, solo una colata di rabbia che, col suo sguardo, scava un fossato tra noi, pubblico indegno, e lui, artista abbandonato al suo destino. Ne potrebbe venir fuori una performance sterile, un cantare d’ufficio, un prezzolato suonare. E invece quello che comincia adesso, quel che si genera da questa turbata alchimia di collera, risentimento e costrizione è il prodigioso corrispondersi di spirito e materia. Francesco Di Bella canta da emarginato dell’emarginazione, canta solitario della solitudine, canta da diverso del vivere al limitare della totalitaria normalità, canta nell’ombra del disagio l’abitare il buio dell’opprimente – quanto catartica – inquietudine. Naufraga nel malessere per riemergerne con i versi taglienti di una lunga e rovente ballata della più autentica rabbia.

Francesco Di Bella, stasera, soffre. E canta per non soffrire.

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